IlBigio.it non ha paura delle idee e in questo spazio intende tenere alta l’attenzione sulla questione del ritorno dl Bigio in piazza Vittoria, dando voce anche alle opinioni contrarie alla nostra (purché autorevoli e intelligenti). Di seguito l’intervento gentilmente inviatoci da Flavio Pasotti, noto imprenditore bresciano.
di Flavio Pasotti
Voglio ringraziare i curatori del sito per la rara cortesia nel voler ospitare un intervento non coerente ai loro obiettivi, perché rispetto alla triste idea di un “fare sistema” univoco che maschera la scarsità delle idee è molto meglio alimentare una discussione, anche feroce, che arricchisca e renda tutti dissenzienti ma consapevoli. Davanti alla Loggia svettava nello stesso stile veneziano del palazzo e di tre lati una bella ed elegante colonna che reggeva il Leone di San Marco, sotto la quale si svolgevano le esecuzioni capitali e le giostre comunali. Con deliberazione del Direttorio della Repubblica Bresciana, nel 1797 fu dato incarico al generale Giuseppe Lechi di rimuoverla, insieme agli altri simboli del dominio della Serenissima. Dopo la Restaurazione si aprì in città un lungo dibattito su cosa fare nello spazio lasciato vuoto dalla Colonna nella principale piazza cittadina, questione risolta ben sessantasette anni e non poche polemiche dopo dalla donazione di Vittorio Emanuele per il monumento alla Bella Italia (non bellissimo in realtà) del tutto privo di qualsiasi legame architettonico con la piazza stessa ma di preciso significato politico.
Non esiste una autonomia dell’artista, sia essa del pittore, men che meno dell’architetto e ancor meno dell’urbanista giacchė la loro opera è frutto contrattuale di libera interpretazione (quando va bene) del volere del committente: ciò che storicamente giustifica l’opera è la volontà di chi la commissiona di rendere pubblico qualcosa, da un tema sacro ad una rappresentazione politica. Piazza Vittoria non sfugge alla regola e rimane un’affermazione del potere che si sposta nella città, dal Broletto alla Loggia allo sventramento fascista, cercando di tradurre nello spazio urbanistico il nuovo baricentro politico cittadino. La vicenda di Era Fascista, così battezzata alla presenza di Mussolini, è la stessa della Colonna anche nella storia dei protagonisti, essendo stato un suo durissimo detrattore un Lechi, questa volta podestà e non generale (ma in questa città qualcuno sta con continuità con chi comanda), e rappresentando essa un dominio dal quale ci si volle emancipare: la statua di Dazzi (pure questa non bellissima come testimoniano i nomignoli affibbiati) mai amata dai cattolici, venne danneggiata a conflitto concluso da due esplosioni e rimossa senza rimpianti con delibera comunale del sindaco Ghislandi. Fu un atto politico con significato storico ( perché la politica è una cosa seria) togliere la Fascistissima Statua come lo fu quello dei repubblicani giacobini per la Serenissima Colonna. Rimetterla non ha nulla a che fare con architettura e urbanistica ma semmai con una visione diversa della storia rispetto al 1945 e necessita un vero atto politico come una votazione in Consiglio Comunale per una delibera (non banalmente amministrativa) che cancelli quella del 1945 e che preveda la ricollocazione. Ripeto, deve essere un atto politico, non può essere filologico, perché non fu filologico ma politico il volerla, lo fu il toglierla come lo fu l’apertura del sindaco Corsini in una errata logica di riappacificazione e fu politico e inutilmente furbesco il silenzio in forza del quale la giunta di Adriano Paroli, lasciando la cosa in mano a un assessore, predispose tecnicamente, ma non eseguì prima delle elezioni, la ricollocazione.
Sapendo che non finirà qui, ora una postilla: anche Piacentini soffrì non poco per la statua. In primo luogo perché non è per nulla provato fosse nelle iniziali ispirazioni dell’architetto: il plastico della piazza custodito in Comune non la prevedeva e un plastico lo si realizza quando si hanno già gli esecutivi in testa. Quando fu imposta, Piacentini pensò nella sua autonomia ad una Vittoria Alata che avrebbe compreso tre significati diversi: la celebrazione della Vittoria del ’18, il riallacciarsi alla storia cittadina e una elegante riproposizione del mito “Romano” tanto caro al Ventennio Littorio. Evidentemente questo non bastò ai committenti che chiesero qualcosa di più “significativo” (come si diceva più sopra, la autonomia dell’artista è contrattata con il volere del committente, in questo caso più che in altri data la natura autoritaria dello stesso) e accettò di coinvolgere Dazzi con l’idea di echeggiare, in luogo della Vittoria, la Giovinezza Fascista con estetico vigore attraverso la nudità virile. Ora, posto che fenomeni di anastilosi storica o di filologia architettonica di questo significato non si sono verificati in alcun paese europeo e che se questa discussione trovasse spazio in Germania per un qualsiasi monumento dell’epoca si muoverebbe il mondo, quale è il pezzo di storia e quale è il significato politico che vogliamo ricordare? O quale vogliamo condannare? Tutto qui, il resto è esercizio accademico che il liberale Benedetto Croce, pensando all’impossibilità nell’estetica di distinguere forma e contenuto, definirebbe lapidariamente come un atto di frigidità intellettuale.